La principessa

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Autore
Arturo Martini
Data
1926 - 1928
Tecnica e supporto
Bronzo patinato
Dimensioni
100 x 47 x 32 cm
Collezione
Galleria Crédit Agricole - Refettorio delle Stelline
Ubicazione
Sondrio

L’amore per la scultura e per la creazione plastica nasce già nell’infanzia, osservando le pietre scolpite dei sepolcri consumati dal tempo nei pavimenti delle chiese, e gli stampi in rame del padre, di professione pasticciere. «Ecco dov’è la mia cultura, dove nasce -  ironizza Martini - l’Impressionismo cosa vuoi che mi abbia fatto?».

Nobilmente popolare senza però mai scadere nel sentimentalismo, nella retorica o nel virtuosismo sterile, Arturo Martini ha lo strano destino di essere probabilmente il più grande scultore del Novecento, pur rimanendo praticamente sconosciuto al di fuori dei confini nazionali. La ripresa del classicismo, l’antiavanguardismo e il suo anarchico e personalissimo rappel à l’ordre hanno giocato a sfavore della fortuna critica e commerciale di Martini, troppo spesso associato al periodo fascista a causa dei suoi primi contatti culturali, prima con i futuristi nel 1913-14, poi con Valori Plastici nel 1921.

Le radici culturali del suo fare scultura sono squisitamente italiche, se non italiane: Martini riconosce e interpreta, grazie ad una mobilità immaginativa assolutamente straordinaria, i severi schemi compositivi di Arnolfo da Cambio, le delicatezze descrittive di Mino da Fiesole, gli interni giotteschi, le terrecotte e i bronzi d’Etruria…

Tra il 1926 e il 1928 (anno in cui espone per la prima volta alla Biennale di Venezia) crea i suoi primi capolavori: Figliol prodigo, Madre folle, Il bevitore e La Pisana. La vicinanza a Mario Broglio e al gruppo di Valori Plastici porta Martini a sviluppare uno stile che utilizza i semplici volumi della geometria pura, limitando l’espressività delle forme al minimo necessario. Nelle opere di questo periodo, alla soglia della propria maturità artistica, lo scultore tratta la materia attraverso forme primordiali modificate e ricomposte con un “minimo” di intervento poetico: la fessura di un occhio o di una bocca. «Facevo un ovulo - racconta lo scultore - a questo ovulo, ghe davo un piccolo incavo, che gli dava un atteggiamento spirituale, una malinconia».

Nel 1929 insegna all’Istituto d’arte di Monza e nel 1931 riceve il Primo Premio per la scultura alla Prima Quadriennale d’Arte romana. L’anno successivo vede il successo della sua personale alla Biennale di Venezia, come pure nel 1936 grazie a una serie di piccoli bronzi prodotti l’anno precedente sul Lago di Como, a Blevio: Morte dell’amazzone, Maternità della montagna, Ulisse, Susanna, Il centometrista e Laooconte. L’intensità espressiva e la varietà formale delle opere che qualifica questa fase della produzione di Martini non ha eguali. Una progressione di episodi espressivi unici e profondamente diversi tra loro: vicende umane, eroiche, mitiche, simboliche… Una serie di soluzioni plastiche nuove che rappresentano un immenso giacimento formale dal quale tutti gli scultori della seconda metà del Novecento attingono qualcosa, da Marino Marini a Moore, da Manzù a Segal.

L’ultimo periodo è contrassegnato da un ritorno alla teoria “del sasso”, che aveva già caratterizzato l’inizio della sua poetica. «Nel sasso c’è tutto l’infinito, tutto senza misura» afferma Martini, che per lui significa portare la libera disarticolazione delle forme al minimo compromesso con il racconto. La scultura, che non può prescindere dalla rappresentazione del corpo umano, appare infine a Martini un’arte anacronistica, una “lingua morta”. Ecco che allora la compartecipazione emotiva e la narrazione lasciano il posto ad una tensione formale inedita, tiepidamente memore della lezione cubista ma al contempo decostruita, che recupera ed evoca l’energia latente nella materia. Afferrare lo spirito della materia che deve ancora trasformarsi in forma non è facile, è necessario sviluppare una strategia ben precisa, dice lo scultore «… bisogna sempre aspettare che l’opera d’arte sia in un momento di distrazione (…) e far finta di non vederla (…) quando la statua si sente così trascurata, la crede che ti no te la vardi. La sente el desiderio di essere amata, e la se scopre».