Tramontalba
- Autore
- Mario Negri
- Data
- 1978
- Tecnica e supporto
- Bronzo
- Dimensioni
- 29 x 42 x 34,5 cm
- Collezione
- Creval
- Ubicazione
- Sondrio
«Vorrei almeno che\come unica voce in attiva del mio lavorare\ci fosse un’equivalenza non fortuita ma profonda\tra lo spirito che lo ha animato e la natura\il sentimento del luogo ove son nato». Così lo scultore di origine valtellinese Mario Negri ricordava brevemente il nesso profondo tra la propria produzione artistica e l’ambiente naturale e culturale della sua terra d’origine.
Il suo itinerario esistenziale e artistico, tanto simile a quello del collega e amico Alberto Giacometti, lo aveva condotto dalla valle alla metropoli (se Milano così può essere definita), conseguendo all’Accademia Brera il diploma di maturità artistica e frequentando la facoltà di Architettura presso Politecnico. Chiamato alle armi nel 1940 e deportato dopo l’armistizio nei campi di prigionia tedeschi e polacchi dove, «un po’ scrittore di cose d’arte e un po’ architetto, ma molto di più scultore, senza aver mai toccato pietra, legno o fuso metallo per le sue figure» immaginava e raccontava all’amico Giuseppe Bortoluzzi della propria aspirazione a scolpire e modellare la materia.
Nel 1946 iniziava da autodidatta un lungo periodo di lavoro che, volutamente, considerava di severo tirocinio professionale, svolgendolo soprattutto presso le botteghe artigiane milanesi, persuaso che solo una solida conoscenza del mestiere fosse la base imprescindibile del lavoro d’artista. I riconoscimenti e le commissioni non tardano ad arrivare, e nel 1957 Negri esordiva con la sua prima mostra personale presso la Galleria Il Milione a Milano. Sono questi gli anni più fertili per l’artista, sia dal punto di vista culturale che personale: il sodalizio con Serafino Corbetta, Cesare Gnudi, Franco Russoli, Lamberto Vitali e Marco Valsecchi; infine la preziosa amicizia con Alberto Giacometti. «C’è stato un tempo – ricordava Negri a proposito di quel periodo – in cui Alberto Giacometti “milanese” è stato solo mio, poi se ne sono impadroniti tutti, quei tutti che ora se lo sono già dimenticato (…) Nessuno per molto tempo volle conoscerlo e nemmeno sapeva o quasi chi era. Per me era l’uomo più vero e l’artista più autentico che avessi mai incontrato in tutta la mia vita».
La poetica di Mario Negri sembra oscillare costantemente tra due tendenze opposte eppure infine convergenti: da un lato l’inesausta ricerca formale e aggiornatissima sugli ultimi esiti della scultura a livello internazionale – come dimostrano l’ardita maquette de La nuotatrice, La grande coppia e il Gruppo della Misericordia – dall’altro il tenace richiamo delle origini, nel tentativo «di riconquistare il tempo, cercare di risalire a un passato senza memoria». Negri stesso si domandava, osservando le sue colonne e le sue steli se «per una misteriosa ascendenza ancestrale queste non discendano forse dalle pertiche longobarde, le lunghe lance sormontate da una colomba che segnavano il luogo in cui un guerriero era caduto combattendo?».
Focus sull'opera
L’amore per la scultura antica e moderna – e i suoi taccuini sono pieni dei nomi di Giovanni Pisano, Bonanno, Antelami, Tino di Camaino, Bonino da Campione; ma pure di Modigliani e Martini, di Maillol, Brancusi e Medardo Rosso – lo hanno condotto a lavorare su masse scultoree eloquenti, spoglie, e densamente espressive, come nel biblico Davide Re, dove la tradizione antelamica accoglie, con la dovuta severità, suggestioni plastiche decisamente attuali.
Allo stesso tempo egli si sentiva assolutamente contemporaneo, tanto da lamentare le qualità meramente estetiche di un certo tipo di scultura, avulsa completamente dal bisogno sociale, al quale invece a suo giudizio lo scultore dovrebbe essere chiamato a rispondere attraverso interventi mirati sul paesaggio, urbano e naturale. E’ in quest’ottica che accettava uno dei suoi maggiori incarichi, la realizzazione in collaborazione con Giò Ponti di una piazza della città di Eindhoven, in Olanda: il lavoro si concludeva nel giugno 1970 con l’inaugurazione della piazza e con una sua personale al Van Abbemuseum, sempre a Eindhoven.
Annota con intelligenza a questo proposito il pittore Enrico Della Torre, suo intimo amico, come l’arte plastica di Mario Negri mostrasse delle forti tangenze con l’architettura: «la sua scultura è architettura, è piena, è fatta di forme, è fondata sulla tradizione. E’ il contrario della scultura esistenziale moderna fatta di vuoti e labirinti come quella di Calder o di Martini».
Tuttavia, spesso le sue proposte non venivano comprese, oppure rifiutate per i costi troppo elevati: questo il caso del Gran Prato Pensile, un progetto di ampio respiro volto a «fare salire e scendere i cittadini in una serie continua di grandi giardini pensili ben alberati (…) costituiti da lievi e spaziosi pendii, tutti percorribili e seminati ad erba come i campi da golf. Alcuni lunghi muri di sostegno, dei luoghi di sosta ed, infine, su in alto, nella vasta piazzola terminale cui si accede da una scalinata, la grande scultura resa quasi invisibili da due muri paralleli». Si trattava di Tramontalba, che Negri stesso chiamava Grande Madre per quelle sue peculiarità strutturali che rendono quest’opera incombente e protettiva al contempo, esprimendo mirabilmente, per dirla con le belle frasi di Ennio Morlotti, «quella grevità e quella solennità semplici (…) in cui Negri scioglieva, per dono naturale, ma anche per ostinata moralità, la propria appartenenza attiva alle grandi vicende europee dell’arte».